L’8 marzo non c’è tregua per le madri surrogate ucraine

8/3/2022

di Lorenza Formicola

«Un giorno della scorsa settimana, una madre surrogata in Ucraina,  incinta di qualche mese, telefonava a un avvocato per una strana richiesta: “Se scoppierà la guerra, i genitori biologici del bambino che porto in grembo potrebbero costringermi a lasciare il Paese? Non ho intenzione di abbandonare i mei figli”». Scriveva così il Times il 20/2, per raccontare un fenomeno che è esploso in queste ore e che rappresenta la prima crisi internazionale della maternità surrogata. In queste settimane si è assistito a qualcosa di mai visto prima. Tante strutture, per rasserenare il mercato internazionale, hanno dovuto comunicare con urgenza di essersi trasferite al confine con la Romania o di avere un bunker a disposizione. L’Ucraina, infatti, è la capitale dell’utero in affitto in Europa, e questo business, tra i tanti, è stato messo in pericolo dalla guerra. È la seconda destinazione più popolare dopo gli USA (Michigan e Louisiana restano gli unici Stati in America a proibire la maternità surrogata dietro compenso): si stima che circa 2.000-2.500 bambini nascano ogni anno attraverso la maternità surrogata in Ucraina e almeno 1.500 coppie che vivono in USA, GB, Irlanda, Australia e Francia hanno embrioni conservati in cliniche ucraine. Moltissime le disdette da parte di quelle coppie che ancora non avevano iniziato il percorso di maternità surrogata, e poi le domande e le preoccupazioni. Chiamate di chi, per la guerra in atto, ha paura che il desiderio di maternità resti compromesso. Gli altri, quelli il cui bambino è già nato e quelli cui sta per nascere, si trovano a vivere tutta l’ambiguità e le contraddizioni che la pratica dell’utero in affitto porta con sé. Non solo dal punto di vista etico, ma anche da quello giuridico. Tra i protagonisti ci sono i bambini, che sfuggono alla narrazione dominante perché considerati merce protetta da esportare e che per questo non finiscono sotto i riflettori. Make babies not war, così la clinica Biotexcom ripostava sui social, poche ore prima degli attacchi, la sua campagna per assicurare che le attività di maternità surrogata in Ucraina sarebbero proseguite con regolarità. «Non ci sono motivi per farsi prendere dal panico, né per gli ucraini né per gli stranieri qui. Siamo anche molto grati a chi sta confermando i trasferimenti di embrioni a Kiev». (…) In Ucraina ci sono oltre 33 cliniche private e 5 cliniche statali. Nei giorni scorsi la Biotexcom, il colosso internazionale della fecondazione assistita, s’è visto costretto a rispondere a quanti si dicevano pronti a raggiungere l’Ucraina per mettere in salvo i loro preziosi embrioni e i feti che crescevano nelle pance delle donne contrattualizzate: «In tanti state esprimendo il desiderio di portare urgentemente le madri surrogate al confine e far partorire i bambini all’estero. Ma vi avvisiamo! Dare alla luce il bambino al di fuori dell’Ucraina è reato e avrà conseguenze legali: la surrogata sarà considerata sua madre e il tentativo di far nascere il bambino sarà considerato traffico di minori, non sarete mai i genitori del vostro bambino». Sempre la Biotexcom, pochi giorni prima che la guerra iniziasse, diffondeva un video dove mostrava di aver messo al riparo, in un bunker costruito solo per loro, i bambini e le madri surrogate, per rasserenare i ricchi committenti. Oltre a rassicurarli di aver messo al riparo gli embrioni congelati. Quel che conta, insomma, è la temporanea sopravvivenza delle madri surrogate perché consegnino i bambini ordinati in tempo, nonostante la guerra. Un cinismo ostinato, rivelatore di un mercato senza legge.  Secondo il Global Markets Insights, una società di ricerche di mercato, l’industria dell’utero in affitto nel 2018 valeva circa 6 mld di $ a livello globale, nel 2025 si stima debba raggiungere i 27,8 mld di $. A settembre 2021 le celebrità francesi pubblicavano su Le Monde un appello a vietare la vendita di animali domestici, sostenendo che «questo commercio porta all’oggettivazione dell’animale». Il medesimo appello non è stato inoltrato per il catalogo dell’utero in affitto, sul quale c’è tutto – gruppo etnico, colore dei capelli e degli occhi del donatore, ma anche bambini “senza macchia”, senza futuri problemi di salute o disturbi genetici. La maternità surrogata, venduta come “tecnica riproduttiva”, è un modo per reificare la donna: non esiste più come soggetto, ma diventa strumento. E in Ucraina molte di queste donne affermano regolarmente di essere considerate “bovini”. Nel 2015, dopo che India, Thailandia e Nepal hanno bandito la maternità surrogata per le coppie straniere, il mercato s’è trasferito in Ucraina, il che consente il processo per le coppie omosessuali e le donne single. Un altro fattore che ha contribuito alla popolarità dell’Ucraina come destinazione di maternità surrogata è la facile disponibilità di un numero elevato di donne pronte ad affittare il proprio corpo. L’Ucraina è il Paese europeo più povero, e guarda caso uno dei pochi al mondo dove l’utero in affitto è legale. Si pensi che solo Biotexcom offre ai suoi clienti pacchetti da 29 a 49.000 €: prezzi ridicoli rispetto a quelli statunitensi. E una madre surrogata ne guadagna circa 10.000. Questo 8 marzo, però, non c’è nessuna manifestazione femminista a difesa dello sfruttamento delle ucraine, costrette ad affidare il proprio utero per sfamare i propri figli. E chissà cosa succederà dopo la guerra.

Fonte dell’articolo “La Nuova Bussola quotidiana”

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